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25.06.2020
Epistolario
Cara Roberta. Un epistolario tra sconosciuti in tempi straordinari.

 

Cara Barbara!

 

Stamattina mentre me ne stavo comodamente sdraiato sulla poltrona del dentista, ho cominciato a pensare a cosa ti avrei scritto per rispondere alla tua ultima lettera. La mia mente si è messa a viaggiare, un po’ cercando di fare mente locale su quello che mi hai scritto tu e che avevo riletto proprio prima di uscire di casa, un po’ in cerca di una storia che potesse suggellare questo nostro epistolario tra sconosciuti che però ha forse finito col renderci un po’ meno sconosciuti.

Dici bene a proposito del fatto che noi umani siamo così, possiamo scegliere tra bene e male, talvolta finiamo anche col scegliere la via di mezzo, o semplicemente la via più comoda, che non deve essere per forza il male.

Umani, quindi imperfetti, d’altra parte se non fossimo imperfetti finiremmo con l’essere degli dei, i famosi dei di cui siamo occupati a più riprese nel nostro scambio di lettere. A te, Barbara, piacerebbe essere perfetta? A me sinceramente no, sai che noia sarebbe la vita… conosco gente che è convinta di esserlo e non hai idea di che futilità e noiosità siano queste persone! Se sbagli hai almeno la possibilità di ricrederti, di ammettere lo sbaglio, di scusarti anche… Ma quelli che fanno tutto sempre alla perfezione, quelli non avranno mai il piacere di poter ammettere un proprio errore. E poi non è per forza detto che gli errori debbano sempre essere negativi.

Non so se ci hai mai fatto caso, ma la vita spesso è come un viaggio in corriera, uno di quei lunghi, interminabili viaggi che sembra non vogliano mai terminare. Non parlo di quelle corriere tipo Gran Turismo che si vedono ogni tanto in autostrada o ferme davanti agli alberghi  delle località turistiche della nostra regione. Parlo delle corriere che congiungono un luogo con un altro, quelle corriere con cui si viaggia non solo materialmente ma anche con la mente. Trovo che sia una prerogativa tipica delle corriere, i treni ad esempio sono già qualcosa di diverso.

Ma le corriere di linea sono perfette per far lavorare la fantasia. Sarà la mia propensione per la scrittura e per il creare storie, ma ho sempre tratto grande ispirazione dai viaggi in bus, un po’ guardando i paesaggi attraverso i quali le corriere sfrecciano, un po’ prendendo appunti mentalmente, ma anche con l’aiuto di carta e penna, un po’ costruendo storie sui compagni di viaggio sconosciuti che ci siedono accanto, davanti, dietro o nei sedili sull’altro lato del corridoio, e anche sull’autista naturalmente.

Come nella vita, anche sul bus ci troviamo a contatto con altre persone, persone che la vita ha messo sul nostro cammino, persone con cui possiamo trovarci bene, ma anche persone che non ci aggradano.

Per avvalorare questa mia teoria sul viaggio in corriera come parafrasi e metafora della vita, vorrei raccontarti di un lungo tragitto che ho percorso anni fa attraverso la Bassa California, durante un’estate particolarmente calda. Viaggiavamo a bordo di un bus della compagnia Tres Estrellas de Oro (le tre stelle erano la sicurezza, la comodità e la cortesia), partiti da Tijuana e diretti a Mulegé, all’incirca a metà di quella sottile penisola che si allunga oltre il confine tra Stati Uniti e Messico, bagnata su un lato occidentale dall’Oceano Pacifico e sull’altro dal Mare di Cortez. Il grande, incognito, imprevisto di quel viaggio si manifestò quasi subito, quando alla fermata di Ensenada uno dei due autisti ci comunicò che un uragano stava attraversando la penisola, ma non si sapeva esattamente in che punto e quindi prima o poi ci saremmo dovuti fermare in attesa che gli eventi volgessero a nostro favore. Questo ci portò ad una sosta di quasi dieci ore nella stazione delle corriere di Guerrero Negro (dove eravamo arrivati nel sonno prima dell’alba), al largo delle cui coste vanno a partorire le balene nei mesi invernali. A quei tempi non ero però ancora un appassionato di cetacei ed essendo estate ero comunque fuori stagione, ma credo che la cosa stia pur a significare qualcosa.

Per essere un semplice autobus che congiungeva l’estremo nord della penisola col suo estremo meridione bisogna dire che offriva un vasto e vario tipo di umanità. In particolare stringemmo amicizia con due tipici messicani espatriati nella zona di Los Angeles, così tipici che non riusciresti ad immaginarteli diversi da come erano, con la carnagione abbronzata ed i baffetti. Melchiòr e Tio Felipe (viaggiava col figlioletto e il nipotino che ogni volta che gli si rivolgeva lo chiamava così). Ma sul bus c’erano anche sei germanici, tre di Colonia e tre di Lipsia, che si guardavano in cagnesco.

I tre di Lipsia, ogni volta che qualcuno chiedeva loro da dove venissero si ostinavano a rispondere, in un inglese più scalcinato del mio, che provenivano dall’East  Germany, finché ad un certo punto fu Tio Felipe a porre fine alla pantomima dicendo che a lui risultava che da un paio d’anni di Germania ce ne fosse una sola!

La corriera ripartì dopopranzo e dopo la siesta degli autisti, un bus proveniente dalla direzione opposta ci aveva messi al corrente che ora la strada era stata riaperta: per modo di dire… ci fecero togliere tutto dal bagagliaio perché ci sarebbero stati parecchi guadi lungo la strada e si sarebbe corso il rischio di bagnare zaini, borse e valigie. Ad ogni fermata i messicani e i tedeschi scendevano a comprare birra e tequila. Melchiòr raccontava storie: ci diceva che lui si chiamava come uno dei re Magi, che aveva due fratelli Balthasàr e Caspàr, e che, come se non bastasse sua moglie si chiamava Reina, che in spagnolo vuol dire Regina. Poco più avanti una coppia amoreggiava, in prima fila un signore dai capelli impomatati e con gli immancabili baffetti sudava impassibilmente senza scomporsi. Due dei ragazzi di Lipsia e Tio Felipe furono alla fine sopraffatti dai fumi dell’alcol, per la gioia dei due bambini che guardavano il baffuto congiunto ribaltato sul sedile intento a dormire russando rumorosamente.

Quando raggiungemmo la nostra destinazione, coincidente con quella dei tre di Colonia, era quasi notte un’altra volta e dovevamo ancora trovare un posto dove dormire, ma prima che il bus ripartisse ci fu ancora il tempo per una birra a bordo e poi abbracci e pacche sulle spalle con Melchiòr, i tre di Lipsia e Tio Felipe.

Mentre nello studio del dentista l’igienista terminava di farmi la pulizia dentale, ho provato a trasporre quel mio viaggio nella realtà attuale. Sarebbe stato un viaggio bruttissimo oggi: una corriera semivuota, i passeggeri mascherati e distanti, niente abbracci una volta arrivati a destinazione. E allora che felicità per quel mio viaggio, e visto che il viaggio è la vita, che felicità per questa mia vita, che non è sempre rose e fiori, che è fatta come tutte le vite anche di luci ed ombre. Ma è la mia vita e tanto basta.

Spero di non essermi dilungato troppo Barbara. A volte mi faccio prendere l mano, te l’ho già scritto, soprattutto quando si tratta di raccontare una storia. Vorrei dire ancora qualcosa sul nostro viaggio. Perché, diciamocelo, anche questo scambio di lettere è stato una specie di viaggio, a volte interiore, a volte no, un viaggio a base di lettere tra sconosciuti. A conti fatti direi anche un bel viaggio. E voglio concludere, tornando alla mia amata musica rock, con una canzone dei Kinks che s’intitola Strangers e il cui ritornello dice: estranei lungo la strada su cui ci troviamo, ma non siamo in due, siamo uno solo… è così nella vita, sulla corriera, negli scambi epistolari.

Buon proseguimento Barbara, aloha!

 

Paolo

 

 

 

                                                                                                                           22.06.2020

Lieber Paolo!

 

Dein Brief berührt mich, weil ich glaube, deine Emotionen herauslesen zu können, und weil ich das Gefühl habe, dich immer besser zu kennen und zu schätzen - als Person, als Mensch, mit deinen Einstellungen und Erfahrungen, Werten und Träumen, Freuden und Verletzungen. Ich spüre instinktiv deine Wut und deine Enttäuschung, wenn du über das schreckliche und scheinbar sinnlose Leiden deiner Mutter berichtest, und die gefühlte Ohnmacht, den Schrecken und den Zorn, wenn du von den furchtbaren Ereignissen unserer Zeiten erzählst – Ereignisse, die angesichts unserer Vergangenheit schon längst nicht mehr hätten passieren dürfen. Und es tut mir unglaublich leid, dass du den Schmerz deiner Mutter miterleben musstest, dafür gibt es keine Worte. Es tut mir leid, dass immer wieder Dinge passieren, die unmenschlich sind, so grausam und schrecklich und dumm. Mich betreffen all diese Situationen genauso, sie machen mich sehr traurig und wütend und nachdenklich. Außerdem bin ich mir meiner Kleinheit natürlich sehr bewusst, ich weiß, dass ich – selbst wenn ich es wollte – nicht all die großen Probleme unserer Welt lösen kann. Und trotzdem – dieser Hoffnungsfunken, von dem du sprichst, er lodert auch in mir und er ist notwendig, um all die kleinen Schritte zu tun, um zumindest im eigenen Einflussbereich auch nur eine positive Veränderung zu bewirken.

Ich persönlich glaube nicht an einen Gott, der den Menschen verdirbt, sondern ich glaube, dass dies der Mensch ganz alleine schafft. Die Freiheit des Menschen sehe ich in seiner Entscheidungsmöglichkeit, die Welt auf eine bestimmte Art und Weise zu sehen und auf bestimmte Art und Weise zu handeln. Vereinfacht ausgedrückt, glaube ich, dass sich der Mensch immer zwischen Gut und Böse entscheiden kann. Und das Böse erscheint uns manchmal vielleicht als einfacher, als kurzfristig gewinnbringender. Außerdem ist es „ja gar nicht so schlimm“, denn „jeder“ handelt schließlich so, also warum sollte genau ich anders handeln und mir damit vermeintlich selbst im Weg stehen? Wir sind alle kleine Geschichtenerzähler und wie du schön beschrieben hast, ist es für uns ein Leichtes, uns eine passende Geschichte zurechtzulegen, um alles Mögliche und Unmögliche zu rechtfertigen. Aber – wir wissen es eigentlich besser, wir spüren es, wenn wir an der Wegkreuzung in die falsche Richtung laufen. Manchmal wird es uns vielleicht erst nach einer Weile bewusst, aber dann umzukehren würde ja bedeuten, sich selbst eingestehen zu müssen, die lange Wegstrecke umsonst gegangen zu sein. All die Blasen an den Füßen, der vergossene Schweiß, die
Menschen, die uns am Wegesrand vielleicht angefeuert haben oder die wir zurückgelassen haben. Wer will da umdrehen? Lieber laufen wir stur weiter, in dieselbe Richtung, auch wenn wir schon längst erkannt haben, dass dort drüben nur der Abgrund auf uns wartet. Und doch – manche von uns haben den Mut, trotzdem umzukehren und das Richtige zu tun. Wie wäre es, wenn wir anstatt der vielen negativen Nachrichten in unseren Medien öfters über solche Vorbilder erzählen würden? Wir könnten es ihnen nachmachen. Es zumindest versuchen, immer wieder. Dabei geht es weniger um das Ziel, den göttlichen Heiligenschein als Prämie zu erobern, noch um irdische Lorbeeren, sondern es geht um die Würde unseres Menschseins.

Was du über die Liebe schreibst, beobachte ich auch mit großem Bedauern, manchmal auch an mir selbst. Ist es nicht jedem von uns schon so ergangen, dass wir angesichts eines verletzenden Erlebnisses unser Herz verschlossen haben? Es ist normal und gut, uns selbst zu schützen. Die Schwierigkeit liegt darin, zu erkennen, wann die Gefahr wieder vorbei ist – manchmal liegt sie auch darin, zu erkennen, von dem die Gefahr eigentlich wirklich ausgeht – und dann besteht die große Herausforderung darin, die eigene Angst zu überwinden und sich wieder der Liebe zu öffnen. Du hast recht, wenn du schreibst, dass viele Menschen dazu nicht in der Lage sind. Vielleicht wollen sie es auch einfach nicht. Und jetzt schreibe ich etwas, womit ich meinen Gedanken im vorigen Absatz scheinbar widerspreche, wenn ich von der Wahl schreibe, die jeder Mensch in jeder Situation hat. Natürlich hat jeder von uns diese Freiheit und damit zugleich die große Verantwortung, über unser Erleben und unser Tun zu entscheiden. Aber um diese Entscheidung treffen zu können, müssen wir zuerst um sie wissen – das heißt, wir müssen erkennen, dass wir überhaupt eine Wahl haben. Damit möchte ich dem Einzelnen nicht die Macht nehmen, immer über sein Leben zu verfügen, sondern uns vielmehr dazu auffordern, dem anderen in einer für ihn scheinbar ausweglosen Situation die Hand zu reichen und ihm wieder neue Möglichkeiten aufzuzeigen. Denn ich glaube, wir erleben alle manchmal Momente, in denen wir diese unsere Wahl eben nicht erkennen und dementsprechend von unserer Freiheit des Wählens auch nicht Gebrauch machen können. Wie schön wäre es, wenn wir uns, mit unserer gewohnheitsmäßigen Lebensweise und unseren konkreten Hilfestellungen im Moment, vermehrt gegenseitig unterstützen würden, unsere Möglichkeiten zu erweitern und von ihnen Gebrauch zu machen? Ein Vogel, der nicht weiß, dass er Flügel hat, kann nicht fliegen lernen. Aber wenn viele Vögel um ihn herum fliegen, kann er sie imitieren. Um wie viel leichter fliegt er dann los! Und wenn der Vogel durch einen Unfall etwa verletzt wird, muss sein Flügel heilen und danach bedarf es der Unterstützung eines anderen Vögleins, das ihm wieder Mut zuflüstert, es nochmals zu probieren.

Ich bin in meinem Leben immer wieder Menschen begegnet, die mir geholfen haben, meine Flügel auszubreiten – in Momenten, in denen ich selbst nicht daran glaubte, dazu imstande zu sein. Das ist ein großes Geschenk und ich bin unendlich dankbar dafür. Ich hoffe, auch selbst das Glück zu haben, anderen Menschen diesen Dienst erweisen zu können.

Ich möchte diesen vielleicht persönlichsten meiner Briefe mit einem großen Dank an dich, Paolo, beenden – die Begegnung mit dir hat mich verändert, bereichert. Jede Begegnung mit einem anderen Menschen auf Herzebene verändert und bereichert uns – vielleicht liegt hierin das Geheimnis unserer Wirkungsmöglichkeit auf dieser Welt verborgen – diese Begegnungen zu erkennen, zu schätzen, bewusst zu gestalten, zu feiern.

Es hat mir große Freude bereitet, dich kennenzulernen und mich mit dir anhand unseres literarischen Briefwechsels auszutauschen. Ich wünsche dir von Herzen alles erdenklich Gute.

 

Liebe Grüße,

 

Barbara

 

                                                                                                                          19.06.2020

 

Cara Barbara!

 

Nel nostro piccolo, hai ragione, i sogni sono storie che ci raccontiamo nel sonno. Però possono essere piccole storie dai grandi valori. Credo che mai come in questo periodo stia tornando argomento di attualità il sogno di un grande uomo che ha dato il calcio d’avvio ad una rivoluzione senza armi per cambiare il mondo, o almeno un certo tipo di mondo. Un mondo sbagliato.

“Ho un sogno”… così Martin Luther King aveva iniziato il suo famoso discorso alla marcia per i diritti civili nel 1963… Un sogno che era forse soprattutto una speranza… Forse quel calcio d’inizio non è stato però abbastanza forte, sono passati quasi sessant’anni, ma quello che vedo in televisione quando guardo un telegiornale nelle ultime settimane mi suggerisce che la strada da fare è ancora tanta.

Ma come è possibile? C’è stato un momento in cui abbiamo creduto (la mia generazione e quella precedente) che i tempi fossero davvero cambiati. Ma evidentemente abbiamo dormito sugli allori. Troppo. E il male ne ha approfittato per rimettere le sue spinose radici.

Siamo cresciuti in un mondo comodo, abbiamo assistito all’avvento di tecnologie incredibili, sia nel campo del benessere che, purtroppo, in quello delle armi di distruzione. Me lo chiedo spesso cosa potrei fare per cambiare il mondo  in meglio, però le risposte giuste preferisco ignorarle perché sono consapevole che dovrei cambiare stile di vita, rinunciare alle cose che mi piacciono. Allora trovo delle risposte di comodo, cerco di guardare il mondo da lontano, come se vivessi su un altro pianeta. Un pianeta affollato da un sacco di altre persone come me, che in un certo senso sono consapevoli ma cercano di raccontarsi una storia diversa. E a me che sono uno a cui raccontare piace, questo risulta molto facile.

Parlo per me, ma ho il sospetto che il discorso valga per buona parte degli esseri umani. Quegli esseri umani, Barbara, riguardo ai quali nella tua lettera ti ponevi un sacco di domande. A partire dal vecchio concetto dell’ “Homo homini lupus” che menzionavi tu stessa: siamo davvero così bestie? Qualcuno lo è di certo. Con buona pace delle bestie, che tutte bestie cattive non sono. Noi umani dovremmo elevarci in questo, ci hanno sempre raccontato la storia della fiammella che ci brucia dentro e che fa la differenza rispetto agli altri animali. Perché animali in fondo siamo anche noi, per definizione. Ma la fiammella dovrebbe distinguerci. L’anima, o qualunque altra cosa essa sia. Il lupo è lupo, è la sua natura, ma noi? Per certe situazioni può valere l’istinto di sopravvivenza, certo, ma in determinate situazioni non ci sono scuse: penso alle belve umane forgiate dalle varie mafie ma anche, naturalmente, alle follie a cui conducono guerre, tirannie e dittature.

Come vedi, Barbara, non sei l’unica ad avere tante domande senza risposte. Ma il concetto del qualcosa di ancestrale chiamato amore, che ci mette tutti in connessione è poi quello che veramente fa la differenza, anche se non è poi così scontato che tutti ne siano capaci… Come ormai avrai capito la musica per me è sempre una fonte di riferimenti e c’è proprio una bella canzone dei Talking Heads che si intitola People Like Us in cui questi concetti sono espressi alla grande: “…non abbiamo bisogno di libertà / non abbiamo bisogno di giustizia / abbiamo solo bisogno di qualcuno da amare”.

Qualcuno da amare. Sembra così semplice, ma se mi guardo bene attorno mi rendo conto che in giro c’è tanta gente che l’amore non sa dove stia di casa. Gente del tutto incapace di amare, e gente che di amare ha paura. L’amore in senso lato, ma anche quello per una persona specifica. Potrei azzardare che si tratta di un frutto malriuscito della società contemporanea, ma se penso in quante culture, anche quelle occidentali, l’amore sia stato bistrattato e messo alla berlina da sempre, quasi fosse un demone da tener lontano. Allora torno all’idea di partenza, cioè quella che nell’essere umano ci sia qualcosa di sbagliato, e quel qualcosa ha le sue fondamenta nelle religioni, quelle che impongono matrimoni senza amore, ma anche quelle che nell’amore vedono qualcosa di peccaminoso da cui bisogna fuggire, di cui non si deve parlare. Eppure quelle stesse religioni, quella cristiana in primis, inneggiano a divinità compassionevoli, misericordiose e buone, che ci dicono amino le loro creature, ma sono pronte a castigarle con una cattiveria degna delle più feroci belve umane che la storia della (dis)umanità ci ha tramandato.

Penso che mia mamma sia stata la persona più buona che io abbia conosciuto, credente ma non bigotta, rispettosa, umile, intelligente. Eppure l’ho vista morire in silenzio, patendo sofferenze insopportabili, senza lamentarsi. E ti confesso che io non riesco ad accettare che un dio come il suo, come quello che avrebbe voluto fosse anche il mio possa aver sottoposto a tali sofferenze chi gli sempre creduto in lui come ha fatto mia mamma.

Vorrei salutarti con un ultimo pensiero riguardo al sogno di Martin Luther King con cui avevo iniziato questa lettera di cui sto perdendo il controllo, Barbara: da un lato sono sempre più perplesso nel veder moltiplicarsi i fenomeni di violenza e intolleranza, dall’altro la mia parte ottimista predominante gioisce nel vedere scendere in piazza la gente, soprattutto i giovani per manifestare, dire la loro, far vedere e sentire che ci sono, che vogliono farsi ascoltare.

E quello che fa ancor più grande e importante questo scendere in piazza è il fatto che lo abbiano fatto di sabato, con le scuole chiuse; il fatto di scendere in piazza per una causa davvero sentita e non soltanto per prendersi un giorno di vacanza, questo mi ha allargato il cuore.

E c’è un bisogno spropositato di cose che allarghino il cuore, non trovi Barbara?

 

È tutto davvero, per oggi, aloha e a presto

 

Paolo

 

 

 

                                                                                                                           

Per leggere l'intero epistolario potete seguire anche i link dei nostri partner: "Cara Roberta" è stata ideata da literatur:vorarlberg netzwerk e Literaturhaus Liechtenstein, in collaborazione con Literaturhaus & Bibliothek Wyborada. 

L'epistolario troverete anche in formato PDF alla voce di menu PRINT (vedi sotto).

 

Foto (c): Michi Lintner

 


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