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“La morte ha un senso soltanto per chi le sopravvive, o è il contrario? Quando mio nonno morì, conobbi il suo segreto e, per la prima volta nella mia vita, credetti di comprenderlo.” (da Il sole contro, in Quando si vive)
Stefano Zangrando

Stefano Zangrando (Bolzano 1973) è docente, traduttore e scrittore. 2008 Stipendium dell’Akademie der Künste di Berlino, 2009 Nachwuchspreis del Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria. Ha tradotto, fra gli altri, testi di Ingo Schulze, Katja Lange-Müller, Peter Kurzeck, Michael Krüger, Lutz Seiler, Kurt Lanthaler. Ha collaborato o collabora con varie testate cartacee e on line, tra cui Alias, il manifesto, L’indice, Doppiozero, Nazione Indiana, Zibaldoni. Tra le sue pubblicazioni narrative Il libro di Egon (romanzo, 2005), Aspetti della teoria del romanzo (saggio, 2006), Quando si vive (racconti, 2009), Mezze misure (prosa, 2015), Amateurs (romanzo, 2016). Vive e lavora fra il Trentino-Alto Adige e Berlino.


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Il cortile dell’ex-birrificio era semideserto. Erano quasi le due, gli spettacoli all’aperto erano finiti da un pezzo e anche le bancarelle erano chiuse. La gru del bungee jumping spuntava al di sopra dei tetti, abbandonata, un gracile scheletro in confronto alle due ciminiere che salivano verso il cielo. La maggior parte della gente era stata inghiottita dalle discoteche circostanti, i cui volumi altissimi trapassavano i muri di mattoni rossi mescolandosi all’esterno in un rimbombo distante e confuso. Solo il banco dei würstel era ancora attivo, attorniato da pochi affamati che, come noi, avevano già abbandonato le danze.

Rallentammo a pochi passi da dove si erano esibiti i mangiafuoco.

Ci fu un istante di imbarazzo, poi: “Be’, allora noi andiamo”, disse Martín. “Tu che fai?”

Mi strinsi nelle spalle. “Credo che chiamerò Gerwin, dovrebbe essere da qualche parte qui fuori”. Indicai l’uscita a nord, verso la fermata della metropolitana.

“D’accordo”. Martín cinse le spalle di Dorothy. “Noi andiamo dall’altra parte. Ci vediamo”.

Dorothy mi salutò con un cenno. “Mi ha fatto piacere”, disse.

Ricambiai il saluto con la mano e li guardai allontanarsi abbracciati verso il cinema multisala.

Eccomi lì, per la prima volta da solo in giro per Berlino, in piena notte, senza sapere bene come tornare a casa. E alle mie spalle: la festa, la ragione che mi aveva condotto lì. Finita. La festa, ossia la ragione. Sicché all’improvviso la mia presenza in quel luogo non aveva più senso. Bella scoperta. Che altro mi aspettavo? Non avevo dimenticato abbastanza chi ero, cosa facevo, quanto poco futuro avevo, quanto insignificante era il mio passato? O che altro era il bisogno di divertirsi se non la voglia di sottrarsi allo sguardo severo del tempo, di sprigionarsi, di ridursi all’attimo della propria evasione? Mi venne da pensare che allora, forse, quel vuoto che adesso mi riportava a me stesso era proprio il tempo nella sua veste più autentica. Il riflusso del tempo mi svelava che la mia presenza nel mondo non aveva senso. Avevo bevuto troppo.

Estrassi il cellulare dal marsupio e, nonostante faticassi a fissare il display, riuscii a scovare in rubrica il numero di Gerwin.

Squillò a vuoto.

Maledizione, pensai, voglio tornare a casa, voglio un tetto, un letto. Voglio andare a dormire e dimenticare la triste incompiutezza di questa serata. Non che il bacio di Eva non avesse lasciato tracce, percepivo anzi, e con un certo compiacimento, la parziale soddisfazione degli istinti. Ma cosa me ne facevo dei soli istinti, che chiedevano unicamente di essere appagati al più presto fino in fondo, fino a una copula totale che avrebbe visto esitare me per primo senza un minimo dialogo, uno scambio di parole, foss’anche un mero circuirsi linguistico, un materasso di piccoli complimenti, di mezze opinioni riadattate ad hoc, di menzognucce in buona fede e lacerti di confessioni, quel tanto che basta, insomma, a non sentirsi troppo estranei, puri corpi avidi di un’estemporanea felicità organica, a non piantarsi il muso o scoprirsi d’un tratto sgraditi l’un l’altro non appena il piacere lascia il posto alla brutale evidenza che si è di nuovo separati, lontani, soli dentro?

Ma viaggiavo troppo con i pensieri. La serata finiva, Eva era scomparsa, non mi restava che il ricordo vaghissimo, intorbidato dalla sbornia, delle sue labbra contro le mie: dovevo accontentarmi. Ma che idea intollerabile, accontentarsi! Chi si accontenta non gode, l’avevo sempre creduto e adesso ne ero un perfetto esempio. Possibile che Eva non si sentisse altrettanto insoddisfatta? Sarà stata anche un tipo particolarmente irrequieto, ma aveva pur sempre baciato un uomo – prima di piantarlo in asso. Non aveva voglia anche lei di dare un seguito a quella prima benedizione, di coronarla con un gloria che ci avrebbe resi angeli, anche solo per una notte, al cospetto della stessa divinità?

No, non ce l’aveva: così recitava l’evidenza della mia solitudine notturna in mezzo al cortile della Kulturbrauerei. Del resto, mi ero ripromesso di tenere a bada i miei bisogni più bassi, e invece mi ero ritrovato a correr dietro alla brutta copia rutena di un sogno a due dimensioni impersonato da un’attrice sconosciuta e inconoscibile dall’altra parte dell’Atlantico. Ero io stesso la brutta copia delle mie fantasie più imbarazzanti. Un abbozzo. Cartastraccia.

Quando mi incamminai, sentii frusciarmi i pantaloni fra le cosce.

(da Amateurs)